Page 319 - Libro Sacro Monte di Varallo
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mediatezza, la spontaneità, la naturalezza nella distribuzione dei gruppi, nella forza espressiva dei volti e dei gesti in cui si rivelano tutti i più reconditi senti- menti, e nella resa chiassosa e tumultuante, che dalle statue trapassa alla folla che urge e preme tutt’attorno nei dipinti del Tanzio. La consueta disposizione corale delle figure, quasi a semicerchio, creando al centro una zona meno affollata, spalanca allo sguardo dell’osservatore, che si trova quasi calato in prima persona nel dramma, la parte più cruciale dell’episo- dio evangelico. Forse mai come in questa cappella si contrappongono la “stultitia mundi” con la “sapientia Cristi”. Infatti, il primo impatto avviene col fasto della reggia, che quasi intimidisce con la sua opulenza mondana. Lo sguardo è subito captato dal trono ricchissimo, vero centro ideale dell’azione e vero capolavoro di seicen- tesco artigianato aulico, sfolgorante d’oro e di intagli, superbamente coronato da uno stemma a banda nera in campo d’oro; stemma certo di invenzione, ri- entrante forse ancora nell’immaginario medioevale, non potendosi ovviamente alzare nessun vero blasone di qualche nobile casata. C’è tuttavia da chiedersi se l’autore avesse l’intenzione di investirlo di un qualche recondito significato. E che a questo trono Giovanni D’Enrico attribuisse un’importanza primaria lo si può capire dalla stessa distinta già citata del 1640, da lui presentata ai fabbriceri del Sacro Monte con l’elenco delle opere ancora da pagargli, nella quale lo giu- dica del valore di ben quattro statue. Il tutto è reso poi ancora più spettacolare ed imponente dall’ampio baldac- chino che campeggia su tutta l’aula con i suoi tendaggi cremisi, oggi purtroppo stinti, strappati e laceri. Ma nella cappella di Erode ancor altri elementi profani ed aulici attraggono l’attenzione del visitatore (e penso soprattutto a tanti umili ed anonimi pelle- grini dei secoli passati che mai in vita loro avrebbero visto o avrebbero potuto immaginarsi una vera reggia). Ecco così il cagnolino accucciato sugli scalini del trono (il cane piccolo dell’elenco del 1640); così il nano, che riporta la mente alle nostre splendide corti rinascimentali (quella sabauda per esempio, col ritrat- to di Carlo Emanuele I giovinetto con il suo nano di corte, alla Galleria Sabauda di Torino, ed ancor più la reggia di Mantova con il suo famoso e curioso “appar- tamento dei nani”); così in fine il cane grande, un vero mastino alano, posto in bella vista proprio di fronte agli osservatori, una vera rarità cinofila per quegli anni, sulla quale Giovanni D’Enrico si dimostra sorprendentemente aggiorna- to. Gli alani, o gran danesi, erano già ben noti nei secoli precedenti. Allevati in gran numero a corte nei ducati tedeschi, presenti in molte raffigurazioni medio- Per sfogliare il libro cliccare col mouse sugli angoli delle pagine e trascinare i fogli 319