Borgosesia – Domenico Quirico ospite della confraternita degli ex allievi Liceo Scientifico di Borgosesia

Borgosesia –  Domenico Quirico ospite della confraternita degli ex allievi Liceo Scientifico di Borgosesia

DOMENICO QUIRICO – IL MESTIERE DELL’INVIATO SPECIALE – ESPERIENZE E RIFLESSIONI

 

Venerdì 31 marzo il teatro Pro Loco di Borgosesia era affollato di studenti, insegnanti, ex allievi del Liceo Scientifico e persone interessate a cercare di capire i profondi cambiamenti sociali e politici in atto, ascoltando il giornalista Domenico Quirico.

Riccardo Cavanna, Presidente Ex Allievi del Liceo Scientifico di Borgosesia, ha brillantemente condotto la serata, sintetizzando l’operato della Confraternita dalla sua fondazione, undici anni fa, a oggi, concretizzato nel dono di un moderno microscopio elettronico, nel rinnovo dell’aula di fisica, realizzato con il contributo della Fondazione BPN, nell’erogazione di borse di studio per gli studenti più meritevoli. La Confraternita oggi ha settecento soci e organizza oltre alla “convention” annuale, eventi per raccogliere fondi da elargire al Liceo: è diventata il “braccio armato della scuola”. Il Dirigente Scolastico, Alberto Lovatto, ha portato il saluto del Liceo Scientifico, sottolineando il legame tra passato e presente e osservando come la presenza numerosa alla serata sia un’esauriente prova dell’interesse suscitato da un giornalista importante, che ha pagato duramente per il suo mestiere.

Cavanna, a nome della Confraternita, ha premiato la professoressa Marinella Merlo, severissima insegnante di matematica e anima dell’Associazione, nominandola Socio Onorario: “Una colonna e una luce per tutti noi”.

L’incontro è stato pensato in particolare per i ragazzi: “Per offrire loro degli strumenti per capire il mondo che ci circonda e cosa succede non troppo lontano da noi, i cui effetti ci toccano direttamente attraverso la presenza dei migranti”.

Chiara e Nico, che frequentano il Liceo Scientifico, hanno posto alcune domande a Domenico Quirico.

Definendo in tre parole il suo lavoro Quirico ha detto: “Io sono un viaggiatore: mi pagano per viaggiare e raccontare che cosa vedo”. La passione per i viaggi era nata in Quirico ai tempi della Scuola Media, ragionando di fronte alle cartine mute.  Importante definire subito di che tipo di viaggi si tratti: “Non sono un viaggiatore come Phileas Fogg, il protagonista del romanzo di Jules Verne: “Il giro del mondo in ottanta giorni”, il cui unico desiderio era tornare nella Londra vittoriana dalla quale era partito, per riprendere la vita di prima. Assomiglio di più ad Ulisse, che ci mise dieci anni per tornare da Troia alla sua Itaca. Il viaggio è il tempo e lo spazio che c’è tra partenza e arrivo e tutto quello che accade in quel tempo e in quello spazio. Dal vero viaggio si torna sempre cambiati dagli incontri e dagli eventi che si sono dovuti affrontare”.

L’inviato, ironicamente definito: “categoria in via d’estinzione antropologica e burocratico-amministrativa”, deve: “impregnarsi degli uomini che incontra e trasformarli in racconto”. Le parole sono gli strumenti per trasmettere le esperienze vissute.

“Il paese del Male” è il titolo di un libro di Quirico che parla della Siria, il Male è quello di Dostoevskij, un male collettivo, incombente, cui non si può sottrarsi, un dramma che si concretizza in 400.000 morti in sei-sette anni, su una popolazione di ventidue milioni di abitanti, con nove-dieci milioni di profughi e rifugiati interni. Questi morti, dei quali solo il dieci per cento erano combattenti, non sono semplicemente dei numeri spaventosi, ma persone con un viso, una storia personale, una vita che è stata loro sottratta e ne chiedono ragione: “Solo se ne senti l’odore, ne ascolti il respiro, solo allora si può discutere di Siria. Quello è il paese del Male perché gli uomini per poter sopravvivere devono soggiacere e praticare le leggi del Male, uccidere per non essere uccisi”.

Quirico ha sottolineato che il suo compito è semplicemente quello di raccontare “piccole storie di uomini”, ad altri sono affidate le analisi. Dall’incontro obbligatorio tra la documentazione e la commozione, nasce l’atto giornalistico “decente, necessario” e proprio la commozione deve essere trasmessa al lettore, suscitandogli delle reazioni: “Io lavoro sul dolore umano, la sofferenza, da toccare con rispetto e con delicatezza e il tramite è proprio la commozione”. Un lungo applauso ha sottolineato questa affermazione.

La scrittura di Quirico è caratterizzata dalla lentezza, elemento fondamentale nei suoi approcci: “Non mi preparo mai per un servizio, arrivo libero da pregiudizi, fresco per ascoltare, guardare attraverso gli occhi degli altri. Se devo scrivere sulla guerra in Siria vado in quel paese, cerco di entrarci nel modo che mi è possibile, parlo con le persone, le ascolto, non ho referenti, cerco incontri diretti. Ho conosciuto centinaia di “passeurs”: non sono né buoni, né cattivi, sono semplicemente degli imprenditori, che invece di trasportare cose da un luogo all’altro trasportano persone e devono trasportarne il maggior numero possibile nel minor tempo possibile con il massimo di guadagno. Solo facendo lo stesso viaggio entri direttamente nella tragedia degli umani, altrimenti non potrei mai essere in grado di raccontare e soprattutto di capire che cosa provano. Trasformare la morte in parole è una cosa terribile che ti dà un’enorme responsabilità. Questa è l’esperienza giornalistica vera, non dissimile da quella di un pompiere che quando entra in azione sa che potrebbe morire tra le fiamme, ma non per questo torna indietro. Questo per me è l’unico modo per fare il giornalista, altrimenti mi vergognerei di me stesso”.

Cavanna ha poi chiesto a Quirico di parlare di “Esodo”, la storia del nuovo millennio.

“I migranti sono persone che hanno perso la loro identità e ne hanno assunta un’altra. Sono persone che hanno affrontato un viaggio durato anni, in cui è accaduto di tutto. L’attraversamento del Mediterraneo non è che l’epilogo del viaggio, l’ultimo atto. Queste persone sono partite dal Centro Africa, dall’Eritrea, dalla Somalia, Nigeria, Gambia, Senegal, hanno attraversato metà del continente utilizzando i mezzi più disparati e ad ogni passaggio dovevano guadagnare i soldi per proseguire. Questi sventurati affrontano il viaggio senza neppure sapere quale sarà la loro meta. Il loro viaggio subisce migliaia di arresti, si chiedono loro i documenti che non hanno. Stazione dopo stazione, come in un’interminabile Via Crucis, perdono progressivamente la loro identità, si trasformano in uomini diversi da quelli che erano partiti, uomini nuovi, scolpiti dal viaggio e dalle sofferenze, che non vengono più da nessun luogo sulla faccia della terra. Per capirli occorrerebbe poter fare a ritroso il viaggio, vedere quelli che sono caduti, quasi a segnare il cammino. Questa è la storia delle migrazioni del XXI secolo”. All’applauso della platea ha fatto seguito un’altra domanda incalzante: “Come gestire questi uomini nuovi che bussano ai nostri confini?” Quirico ha detto che l’ospitalità è un dovere e che come giornalista non ha alcun titolo per proporre politiche sull’emigrazione: “Io farei entrare tutti: il mio migrante è quello inutile, che non è in grado di produrre nulla che a noi serva, non sa fare nulla, perché dove è partito non c’è né corrente elettrica, né acqua potabile, ha solo la forza della disperazione, non può neppure comunicare, perché parla lingue che nessuno qui conosce. Il mio migrante inutile scende dal barcone, si siede a terra e aspetta che qualcuno lo aiuti. Per me ogni singolo individuo è sacro e non mi devo perdere nel guazzabuglio dei pregiudizi, se dimentico questo resta solo un piccolo mondo di avari in decadenza”.

Quirico ha concluso citando la straordinaria esperienza fatta al termine della prima guerra mondiale, quando l’intera Europa era un continente di profughi, perché con l’esplosione dei grandi Imperi si assisteva al trasferimento di interi popoli, con milioni di rifugiati nella miseria più totale, con la Spagnola che imperversava (qualcosa di simile all’Ebola di oggi). La Società delle Nazioni, che può essere considerata l’antenata delle Nazioni Unite, nata per mantenere la pace, affidò il problema dei profughi all’esploratore polare norvegese Hansen, che ebbe un’idea geniale: inventò il “passaporto Hansen”, un documento d’identità emesso dalla Società delle Nazioni che permetteva ai profughi di muoversi liberamente in tutti i paesi che facevano parte della Società delle Nazioni. Così facendo Hansen salvò la vita a milioni di russi che scappavano dalla rivoluzione d’ottobre, agli Armeni sopravvissuti alle attenzioni dei turchi e dei curdi. Hansen sfruttò un principio della fisica: se si cerca di contenere una massa idraulica, questa distrugge l’ostacolo e poi si disperde, se tu lasci aperto il varco, completamente, all’inizio avrai instabilità, certo, ma poi l’acqua si allargherà sempre più quietamente fino ad essere assorbita. La massa di quei milioni di profughi dispersa su una superficie estremamente grande si diluisce e non crea problemi. Se tu li respingi indietro, cosa diventeranno? Cercheranno un’altra identità, opposta alla nostra, diventeranno integralisti, salafiti… Il loro è un viaggio senza ritorno, sono fuggiti da qualcosa che non esiste più o dalla morte, dalla fame, dal dolore”.

Per queste migrazioni del XXI secolo il problema è il riconoscimento burocratico-amministrativo dell’esistenza di un popolo nuovo, che ha un’identità umana nuova, formatasi nell’atto del migrare. Fornendo loro un documento si consentirà loro di allargarsi. Questo, a parere del giornalista, è l’unico approccio possibile rispetto alle caratteristiche intrinseche delle migrazioni del XXI secolo.

L’ultima domanda, “prima di tornare alle nostre case e alle nostre certezze”, riguardava la sorte del mestiere dell’inviato tra dieci o vent’anni: “La curiosità per le vicende degli uomini e la capacità di raccontare continuerà a scandire il cammino umano, ci sarà sempre qualcuno che avrà voglia di leggere le storie degli uomini. I giornalisti devono seriamente interrogarsi sul calo di emozioni nei lettori, poiché si sta perdendo quella capacità di indignarsi che fece sollevare l’opinione pubblica durante la guerra d’Algeria del 1960, o durante la guerra del Vietnam: gli Americani stavano vincendo la guerra ad un prezzo che la coscienza civile americana non ha ritenuto possibile pagare. Oggi invece i giornali non riescono a scalfire la crosta dell’indifferenza, forse occorre trovare un nuovo modo di scrivere, chissà se la scrittura continua, senza punteggiatura, usata ad esempio da Céline, potrebbe funzionare?”. Quirico si è detto molto critico nei confronti delle regole dettate dalle scuole di giornalismo: sintetizzare la notizia nelle prime cinque righe, non scrivere mai in prima persona, perché per lui invece il racconto diretto è una forma di lealtà nei confronti del lettore, così come il cercare di dare l’odore del posto in cui si trova attraverso la scrittura.

Questa serata contraddittoria, provocante, emozionante, certo lascerà un segno nelle coscienze di molti, mettendo ulteriormente in crisi certezze traballanti: non c’è una soluzione, le parole di Quirico non volevano e non erano rassicuranti, ma ancora una volta all’uomo viene chiesto di essere fino in fondo umano.

Piera Mazzone

IMMAGINI

  • Riccardo Cavanna;
  • Riccardo Cavanna e Alberto Lovatto;
  • Riccardo Cavanna e Marinella Merlo;
  • Cavanna, Quirico, due liceali;
  • Pubblico;
  • Premiazione Quirico;
  • Quirico;
  • Finale serata.

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