Page 94 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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quis peccat, per haec et torquaetur. Se non si scalda lo spirito paghi la pena il corpo che n’ha la colpa, con la mala mortificatione con cercar carezze per se stesso”.
Quali dunque le conclusioni, i consigli per risolvere almeno in parte il sia pur lieve ma inevitabile disagio per calore corporeo e spirituale? “Per pratticar questi sentimenti, primo: chiederlo a Dio spesso, perché questo è l’essercitio che habbiam da fare due o tre mesi. 2°: offerirsi prontamente, sì alla mattina, come quando più cresce la languidezza a questo picciol castigo a immitatione di Giesù. 3°: non parlar mai con altri dicendo o fa caldo, o non piove ect. e, se altri di ciò si duole, animarlo a far la voluntà di Dio. 4°: neanche meco stesso sospirerò esalando: “Ohimé, che caldo” o cose simili, che sono effetti miserabili d’una voluntà mal moritificata, ma in luogo di dire “Ohimé” dirò alcuna di queste aspirazioni: “Fiat voluntas tua...”, “O Signore scaldatemi il cuore: o benedetto caldo, passate all’anima; o fuoco divino, ardete nel mio interno, che non sentirò il caldo minore [...] Non potendo studiar, meditare ect., essercitarmi in atti di pura rassgenatione e far sottentrare il patire all’operare dicendo a Dio: “Signor mio, adesso Vi servo da poltrone: o fare o patire è lo stesso, quando così piace al Padrone: mangio il pane senza lavorare ect.: pur che si gusti Dio, io mi accontento di esser asino” ”.
Il cibo è un altro argomento che Quagliotti ritenne di dover affrontare nel corso di quei primi, rigorosi esercizi spirituali ignaziani. E’ bene premettere che dai rari, curiosi cenni nelle lettere, dalle liste di spese mensili e annue non siamo in grado di conoscere nei particolari il regime alimentare del rettore e dei chierici studenti di S. Cristina. Tuttavia, dai pochi riferimenti noti e dal fatto che si osservasse allora una dieta rigorosamente conseguente alle produzioni agricole stagionali sfruttando altresì al meglio la struttura morfologica del territorio, qualcosa possiamo dedurre. Sappiamo inoltre che le terre di S Cristina dovevano essere in buona parte coltivate a vigneti, con le parallele, private coltivazioni di ortaggi comuni oltre che di grano e di piante foraggere - cui non doveva andare disgiunta l’imprescindibile attenzione ai periodi sacri e, come la Quaresima, di ‘magro e digiuno’, soddisfatti in gran parte, oltre che con erbe e verdure, con il pescato d’acqua dolce dei rivi e dei torrenti locali.
Per la maggior parte dell’anno è possibile immaginare che i piatti più comuni dovessero essere quelli a prevalenza vegetariana accompagnati da formaggi e latticini locali diversi (ad esempio, tra i preferiti da monsignor Bascapè, lo sbrinzo delle alte valli novaresi) mentre, quando c’erano e quand’era consentito dal rispetto delle norme ecclesiastiche, occasionalmente non dovevano mancare altri elementi tipici delle tavole ecclesiastiche: uova e pollame. Siamo pressoché sicuri invece, quanto ai condimenti, che il burro (butiro) e l’olio (oglio) fossero ben presenti ed apprezzati. Inutile dire della frutta – delle castagne, in special modo, quant’era tempo – e del vino. Sappiamo infatti che oltre agli acquisti, oculati e consigliati dalla più rigorosa parsimonia, non mancavano i proventi delle ‘cerche’, ovvero delle questue, e i donativi così come le elemosine.
Sicuramente non saranno stati pasti variati e abbondanti se si bada alle ristrettezze economiche – per non dire all’indigenza – e al rigore ascetico del teologo di S. Cristina. Una freschissima testimonianza sull’argomento e in particolare sulla “temperanza” del Quagliotti ce la offrono le memorie del notaio Girolamo Torelli,