Page 90 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
P. 90

Serietà quindi, sia pure senza durezze, senza lasciarsi andare ai deplorevoli “...moti del ridere” ai quali, confessa amaramente e soprendentemente un Francesco che i pochi e più antichi ritratti ci mostrano asceticamente ispirato e con uno sguardo verso realtà che nulla hanno di terreno e mondano, purtroppo “...son soggetto”.
Un Quagliotti, questo, la cui immagine storica non manca di stupire con affermazioni che se non fossero sue sarebbero francamente difficili a credersi. Col tempo, chi studia la storia degli uomini impara a intravedere, là dove è possibile, sotto la polvere dei secoli e attraverso le più disparate testimonianze, un bagliore di vitalità cui si stenta sempre, agli inizi, a dar credito. Eppure, ecco un rigido difensore della riforma tridentina, vissuto negli anni della lotta all’eresia, alla stregoneria, al pericoloso lassismo religioso di preti e frati troppo spesso incolti e non di rado gaudenti, che si confessa “...soggetto” a un’irrefrenabile, umanissima... ilarità.
Urgeva un rimedio. Cosa si impose dunque l’ascetico rettore di S. Cristina, il teologo “eccellentissimo”, il corrispondente del cardinale Bellarmino e del padre generale dei Gesuiti? Semplicemente di non cedere alla tentazione, di non ridere “...in faccia agl’inferiori o superiori o altri, massime in tempo non dovuto et in occasione di cose gravi”.
Come d’altronde era necessario, spiega un delicato Quagliotti, che rispetto ai temibili “moti di curiosità” fosse sempre necessario non voler “...sapere novelle o fatti altrui” pur riconoscendo che in questo e nonostante tutto “...mi par che il Signore m’habbi aiutato”. Altri ed altrettanto pericolosi erano e sono “Li moti di vanagloria” che si combattono con profitto solo operando “per il puro e maggior gusto di Dio... non aspettando mai approvatione dagl’huomini, anzi: godendo quando non si pregiudica l’honor di Dio”.
La rassegna di Francesco si chiude con un accenno a “Li moti di troppo sinceramento, lasciando che pensino pure di me quel che voglino se non m’obliga l’obbedienza o charità; perché talhora, col voler dar troppa sodisfatione, si fa il negotio dell’amor proprio, che non vorrebbe forsi esser stimato meno spirituale o dilicato o imprudente o mal creato o ignorante o poco prattico, o simili cose che, sotto pretesto di dar soddisfattione di sé, puonno adoperarsi per fugir il dispreggio tanto aborito dalla superbia”.
Le riflessioni tuttavia continuano, e durante quei giorni presso la Casa gesuitica di Arona Francesco affida alla penna anche quelle che derivano da esperienze dirette: “Nel giorno della ss.ma Trinità, avendo chiesto che per conoscer Dio mi dasse gratia di profundarmi meglio nel mio nulla, che questo era quel poco apparecchio a tanta festa, mi sentii questo sentimento assai chiaro doppo l’attioni di gratie della messa: che mi conoscevo non solo per il maggior peccatore più putrido della terra, che è cosa assai generale se ben il Signore me lo facessi conoscer con fermezza, ma che io recavo gran danno a questa diocesi di Novara, e più che qualsivoglia sacerdote rilasciato. Poiché havendomi Dio data carica d’ammaestrar tanto clero, che continuamente va fuori ect., da me questi poveri figli non puonno imparar se non male, poiché bene io non ne ho alcuno, e quello che ho non è mio. Diffetti ne ho moltitudine tale che vi nuoto dentro; et havendo tanti diffetti c’è un pessimo male che





























































































   88   89   90   91   92