Page 138 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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Risolta la questione primaria ecco una serie conseguente di quesiti, secondari ma non troppo: quando possa dirsi la guerra ‘giusta’: “...an aliquod bellum possit esse licitum”; quali siano le condizioni basilari affinché un conflitto possa dirsi tale, cioè giusto: “...quae conditiones requirantur et sit iustum et licitum”; a tali interrogativi ne seguono altri di minor rilevanza.
Lo sviluppo del tema, in una “Sectio prima”, già dalla seconda riga vede il supporto di un’autorità di primissimo ordine: una citazione da s. Girolamo e così di seguito nelle righe e nei paragrafi che si succedono: una “Sectio secunda” seguita da alcuni paragrafi di “interrogationes”, “dubitationes” e “difficultates” secondo un metodo per molti aspetti ancora legato a modelli di retorica e di insegnamento già tipici dell’universitas medioevale.
Alla lectio seguiva una articolata disputatio: l’argomento veniva così dapprima presentato e successivamente dibattutto, tra domande e risposte serrate formulate tutte dal docente e rettore, proponendo una serie di valutazioni e pareri a favore di una teoria principale cui si opponeva un’altrettanto serrata critica con obiezioni e punti di vista contrari. Le dispute, talvolta feroci, avevano per secoli caratterizzato proprio le lezioni delle principali facoltà teologiche europee e, dopo il concilio tridentino, metodi e virtuosismi accademici avevano solo cambiato stile senza mutare nella sostanza.
Insomma, si poteva arrivare a discutere ad esempio che sì, la guerra era certo fatta di “pugnas ferocis” da descrivere quale “professio nocendi ivi et armis adversariae” ma era necessario capire meglio, e ciò faceva nascere una dubitatio: “...de causa iusta et bellum si licitum” ovvero “quanta debeat esse... injurias”. A questo punto si apriva però, nell’ottica speculativa del docente, un’altra questione: quella secondo cui “...quae et quot sint injuriae ob quas licitum sit inferre bellum” e così via: quali “defectae iustae causae”, “...qui bellum fecit per se quidem iniustum sed per accidens”.
Ma allora, ci si doveva chiedere in un ulteriore approfondimento, quale ingiuria è considerabile causa prima? Quagliotti provvedeva immediatamente a rispondere: “Respondeo: iniuria debet esse nondum satisfacta post quaesitam compensationem...”. La casisitica proseguiva in un vortice, in un crescendo di dettagli minuziosi confortati da citazioni scritturali e patristiche432. Non si evitava di scendere in particolari anche scabrosi: “licet” o no l’uccisione di innocenti?433 Quando, perché? E come valutare la “disparitas” degli eserciti? Si sarebbe potuto ricorrere al tragico espediente della “represalia”?
432 In altri casi le auctoritates, i pareri insomma cui Quagliotti facava riferimento, lo si vedrà, erano in prevalenza a lui contemporanee, ‘moderne’ dunque, con il ricorso frequente ad opere di teologi e moralisti che, in molti casi, appartenevano alle agguerrite schiere di domenicani e gesuiti di area ispanica temprati dalle dispute controriformistiche: si trattava di esponenti di gran nome nella manualistica per sacerdoti e confessori, quali Luis de Granada, Juan Maldonado, Alfondo Rodriguez, Emanuel Sa, Domingo de Soto, Francisco Toledo.
433 Altro è però il riferimento, nelle lezioni del teologo galliatese, al più generico caso “De homicidio”, una evenienza sicuramente comune, in quegli anni, in ambito sia urbano, sia rurale, dove appunto esercitava il suo ministero Francesco. A tale fattispecie fanno da corollario casi particolari quali – significativamente primo fra tutti - l’omicidio a seguito di adulterio (nei sottocasi ulteriori nei quali era la vittima dell’adulterio (si prevedeva fosse il marito) ad essere infine anche uccisa, o quando l’adultera (qui solo la moglie), una volta scoperta era dal marito uccisa, non di rado, si precisa, insieme all’amante).




























































































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