Page 133 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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quale però, purtroppo, nulla sappiamo quanto al contesto sociale e circa i personaggi che ne furono i protagonisti – don Vandoni scriveva a Francesco: “...dubitando ch’uno penitente sia o non sia incorso nel primo caso della prima tavoletta per havere detto ‘putana di Christo di legno’ per tre volte, per essere tal figura representativa. Pertanto aspetto il di lei parere... Item la facoltà d’assolvere medemmamente dal caso 6 prima tavoletta. Non altro; et con tal fine le bacio le sacrate mani offerendomele et pregandola degnarsi havermi raccomandato nelle di lei orationi et sacrificii”421.
Una consulenza ‘tecnica’ che, stando alle numerose testimonianze reperite nel ricco epistolario del rettore di S. Cristina, era sicuramente molto utile ed ancor più apprezzata da una folta schiera di sacerdoti che, quantunque ottimi parroci e confessori, non dovevano essere del tutto ferrati nelle sottigliezze della teologia morale e della casistica in particolare. Attraverso questa solidarietà, quest’amicizia da cui scaturirono i numerosi suggerimenti ai colleghi meno colti e preparati si deve notare, in filigrana, l’esempio da dare ai laici e, va detto, agli ecclesiastici tentati allora dal protestantesimo.
In quei frangenti storici profondamente segnati e pervasi dalla sensazione di pericolo per il diffondersi delle riflessioni riformate, luterane o calviniste che fossero, nelle quali prevaleva un triste individualismo a scapito della coscienza e del sentire cattolico, decisamente più sociale e comunitario, Francesco seppe perfettamente comprendere l’importanza della vità comune, dell’unità e della compattezza sacerdotali.
Una esigenza pedagogico-formativa, questa, molto sentita e in particolare dai presuli novaresi del periodo: soprattutto Bascapè, lo sappiamo bene, già dall’autunno del 1609 era stato un entusiasta fautore dell’insegnamento della casistica a S. Cristina: si è detto infatti del suo specifico interessamento presso il canonico Dolci, del Seminario di Novara, al quale imponeva di operare: “...col sig. Vicario” affinché quanto prima Quagliotti si recasse a Santa Cristina perché “...insegni i casi, sì come io ordinai”.
Ma come insegnava Francesco? Per il ferrato teologo Quagliotti – che già nella sua dissertazione accademica del 1607 aveva trattato del ‘peccato’ e del potere rigenerante della ‘gratia’ – l’insegnamento dei casi di coscienza era, per così dire, il pane quotidiano; le sue spiegazioni, il suo metodo educativo erano sicuramente di ottimo livello.
Ce lo confermano non solo – e lo vedremo – le trascrizioni di non poche delle sue eruditissime lezioni (dalla storiografia sul fondatore degli Oblati del tutto inesplorate) da parte di un promettente allievo, il giovane chierico Zanoja, ma anche
421 AONo, cart. 4, 16 febbraio 1613. Le “tavolette” cui fa riferimento il curato di Veruno erano quasi certamente dei quadri riepilogativi, forse per argomento, presenti sia sui manuali per confessori - veri e proprii prontuari, con elenchi di casi cui corrispondevano graduate penitenze – sia su istruzioni appositamente inviate, probabilmente a livello locale, diocesano - dall’Autorità ecclesiastica. Di quest’ultima ipotesi siamo precisamente documentati proprio riguardo al nostro: il 17 novembre 1615 infatti, Quagliotti riceveva allegate alla posta inviatagli dall’amico don Francesco Poletti “...la tavoletta de casi ricevuta... con potestate delegandi sive limitationibus; di più, rimando la mia inclusa con la facoltà che da basso ricerca ampiamente concessa”: AONo, cart. 4.