Page 132 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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Specularmente però era necessario individuare, nelle azioni ed evenienze studiate, quali comportamenti risultavano illeciti, come e perché apparivano tali e dunque da stigmatizzare negativamente dal confessore o dal direttore spirituale. A questi illeciti portamenti erano applicabili norme e precetti penitenziali talvolta anche rigorosi che i molti manuali per confessori non mancavano di elencare e suggerire.
Del resto, proprio Quagliotti era quotidianamente interpellato da amici e confratrelli, curati o parroci che fossero420, con quesiti posti a voce o per lettera, su casi specifici e sovente assai difficili e spinosi che richiedevano un particolare approfondimento, una più approfondita conoscenza della normativa ecclesiastica più recente e appropriata che, localmente, solo l’“eccellentissimo” teologo di S. Cristina, o magari l’amico teologo di Gozzano, don Giovanni Giacomo Ferrari, avrebbero potuto e saputo discernere.
Un esempio senza tempo, tra i molti documentati, ci è proposto proprio da una breve missiva del curato di Veruno. Costui, evidentemente preoccupato sia per l’anima del proprio penitente, sia per il suo distinto ruolo di prudente confessore, si era rivolto ai lumi del teologo di S. Cristina in seguito ad uno spiacevolissimo, triste caso di pubblica bestemmia che ancora oggi, leggendone i termini, risulta spregevole per la crudezza e la miseria verbale dell’empio popolano, un linguaggio che lo zelante curato si premurava di riportare precisamente e per intero allo scopo di far meglio comprendere nel dettaglio al dotto interlocutore il ‘caso’ da risolvere.
Incerto sulla più corretta precettistica da seguire e da applicare riguardo al particolare caso – allora come oggi una vicenda certo tristemente molto comune della
420 Splendida la lettera, a questo proposito, di due sacerdoti amici di Francesco. Costoro, temendo una più che probabile punizione disciplinare, gli scrissero chiedendo lumi; erano entrambi preoccupatissimi per il loro futuro infatti, dopo che erano stati colti a contravvenire ad una delle severissime disposizioni che regolavano il comportamento in pubblico del clero: “Giunti a casa, la sorte portò che si recitava una comedia nella piaza publica, sì che io ed un altro sacerdote mio compagno andassemo a sentire i recitanti benché già havessero recitato parte d’essa. La notte seguente, inteso che s’era imposta la sospensione ipso facto, noi s’ebbe grande scrupolo e perciò io et il mio compagno si siamo astenuti dal celebrare e nel libro stampato di novo chiamato Acta Novariensis Ecclesiae vi è la sospensione ipso facto alli ecclesiastici che vanno a sì fatte comedie. Hora tutti duoi noi diamo il presente da V.S. acciò subito mandi dal sig.r Vicario Generale per<ché> [...] licenti d’assolverne tutti duoi da detta censura, o vero che la dia alli nostri confessori ordinari. Mandiamo un ducatone, V.S. provederà, se il nostro messo bast[erà]. Et li parerà buono, di mandare a Novara [...] Ma averta V.S. fare tutto sub sigillo, acciò [...] <il> sig.r Vicario non habbia occasione di puoter procedere [...] via iuris, perché non mancharebbono le inimicitie. Havendo risposta, V.S. la manderà a posta acciò veniamo da lei. [...] Di gratia, V.S. faccia il tutto et <con> prestezza et non ne faccia moto a persona che viva. Ne perdoni, [...] perché delli amici si dovriano servire nelli bisogni, che [...] al bisogno si offeriamo prontissimi a servirla [...]. Li bacio le sacrate mani...”. Nella lettera, in più punti persino drammatica per la paura di una possibilissima “sospensione ipso facto”, va rilevata l’insistenza con cui i due chiedono segretezza, riservatezza nelle comunicazioni, rapidità d’azione, abilità nel condurre le trattative con l’autorità ecclesiastica novarese e, infine, una compassionevole prova d’amicizia verso di loro “nelli bisogni”. Qualcuno, forse Quagliotti medesimo, per riservatezza ebbe cura di strappare la lettera dove compariva il nome del mittente “aff.mo servo...”. Cfr. AONo, cart. 2, 11 febbraio 1611 (presente sul ‘verso’ della lettera datata al giorno successivo e indirizzata, ovviamente, al Vicario generale che Francesco inviò immediatamente dopo averla ricevuta: “Nel libro stampato di novo da Mons.r R.mo vi è la sospensione ipso facto alli ecclesiastici che vanno alle commedie; pertanto, recitandosine una, cetti sacerdoti andarono a sentirela et, accusati della suspinsione, sono ricorsi da me che ottenghi [...] di poterli assolvere. Prego dunque V.S. M.to Ill.re si digna concedere facultà non a me, perché ho a che far assai in altro, ma a suoi confessori ordinarij, di poter assolvere di tale sospensione [...] che alla comedia sono intervenuti. Parimente la prego et suplico che per acquietsrae i scrupoli d’un certo sacerdote dignasi conceder facultà al s.r Vandone, curato di Veruno, di poterlo assolvere da ogni censura purché sia occulta, et in questo, come anche nel primo caso [...] il tutto per utile dell’anima, spero dalla sua benignità ottenere...”. Insomma, di Francesco ci si poteva non solo fidare ma si ricorreva a lui per meglio preparare preti già teoricamente formati e già impegnati nel loro non facile ministero. E non di rado, lo si è appena visto, si trattava di ricorrere a lui per casi spiritualmente canonicamente significativi, con risvolti di una certa gravità.






























































































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