Page 84 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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le commovano. Tuttavia, perché mi giova credere c’hora haverà acquetato questi moti, inesperto tralasciarò l’ufficio, non necessario, di consolarla [...] et più tosto mi rallegrarò con essa là nel miglior modo che saprò, cioè d’haverla goduta vecchia, anzi, decrepita, per quanto mi è stato significato ch’ella sia stata divota, spirituale e caritativa verso i poveri, et che finalmente habbia resa l’anima aiutandola il figliuolo sacerdote a ben morire, di modo che tengo sia andata in paradiso di longo, o almeno puoco spatio sarà fermata nel purgatorio. S’io fossi non di meno sacerdote farei come hanno fatto molti suoi amici: celebrarli una messa, ma poiché non son chiamato a statto di tanta eccellenza farò almeno così: mi communicarò quanto prima et applicarò quest’attione all’anima sua [...]”292.
Al di là dell’accenno a certi ‘luoghi comuni’ dell’epistolografia funebre a carattere encomiastico – la devozione, la bontà, la carità dell’estinta – sono da rimarcare i tentativi, probabilmente riusciti, di non opprimere l’interlocutore con altrettanto comuni espedienti letterari già tipici del gusto controriformistico e barocco per la morte.
L’amico borgomanerese, più semplicemente, sa che Francesco è un buon figlio, un pio sacerdote e soprattutto è persona “prudente et savia”: è ovvio che soffrirà molto e gli pare inutile – da “inesperto”, quale si dichiara, in materia spirituale – cercare di consolarlo, sia pure con frasi di circostanza. Potrà tuttavia far di più, in certo senso: potrà applicare messa e comunione in suffragio di un’anima che, se non andrà in paradiso “di lungo”, potrà sostare, al più per breve tempo, in purgatorio. Delicatezza dunque, buon senso, un fine gusto per la prosa e la certezza di parlare con una persona di qualità umane e spirituali non comuni.
Insomma, già il 15 gennaio Quagliotti era di ritorno al Collegio di S. Cristina. Non tutto era però come prima. Uno stato d’animo nuovo era andato nel frattempo maturando; nuove spinte e motivazioni caratterizzavano le intime riflessioni del giovane prete galliatese. Avranno in questo probabilmente influito, è bene ricordarlo, sia il recentissimo, acerbo dolore per la dipartita della madre, sia forse le asprezze della vita nel “desertum” di S. Cristina oppure infine, perché no, le più o meno sotterranee diatribe con la Collegiata di Borgomanero.
Certo è che nel febbraio del 1613 erano evidenti, in Francesco, i sintomi di un mutato sentire mentre si intravvedevano le prime vaghe linee di un progetto personale di più ampio respiro. Lo si desume senza incertezze da quanto gli scriveva il vicario generale, monsignor Leonardi, da Novara il giorno 15: “M. R.do come fratello. Dalla sua delli 12 di febraro, nella quale accusa una mia che trattava della predica per la Quaresima prossima293, parmi quasi di conoscer dalle sue parole che in lei vi sij
292 AONo, cart. 1, 18 gennaio 1613.
293 AONo, cart. 3, 8 febbraio 1613; monsignor Leonardi a Quagliotti: “...Mi sarebbe stato caro che quando anco si fosse rimesso nel beneplacito mio per l’impiego della predica per la prossima Quaresima, havesse in ogni modo detto dove havrebbe egli stimato più giovevole et di maggior fruttto il seminar detto semme della parola di Dio, che sopra il parer suo havrei fatto consideratione; ma poiché non gli è parso di farlo [...] dirò che consoli prima quelli che me ne hanno ricercato, che sono li huomini di Soriso, se pure vede di poterlo fare senza grande suo discomodo, che di questo me ne rimetto a lei quale, vedendoci difficultà, potrà avvisarmene agiongendo poi dove stimerebbe più utille il dispensar tal talento, che secondo quello si regoleremo. Il lasciar di predicar non l’ho per bene perché è troppo utile passo per le anime peccatrici: predichi pure nel nome del Signore, ch’io ne spero frutto grande”.




























































































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