Page 65 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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Ne è sicura prova un’importante annotazione sul verso di una incolore missiva del canonico Dolci, rettore del Seminario, a lui diretta. Vergate con mano sicura e con un tono che non ammetteva repliche, le brevi righe del giovane prete Galliatese erano l’amaro, sdegnato sfogo dopo quelli che oggi ci paiono – e allora dovevano essere sembrati – inutili tentativi di vincere un clima ostile, refrattario alla sua azione improntata ad un retto, incisivo vigore al fine di organizzare e vivificare il Collegio.
Nell’epistolario di Quagliotti, complessivamente elegante dal punto di vista eminentemente stilistico, e che solo in qualche caso risente del clima fiorito e ridondante del barocco letterario con le sue tipiche iperboli formali e cerimoniose ad un tempo, queste poche righe risaltano non solo, certo, per il rigore del contenuto ma anche per la loro evidente freddezza formale: “Stavo aspettando con gran voglia la venuta di V.S. ma già che lei non compare, forsi trattenuta da maggiori negotij, né io posso più soffrire i disgusti che già un pezzo fa son andato dissimulando con pensiero che da’ Superiori mi sarebbero levati, son sforzato (se da V.S. non haverò altr’ordine) licentiare questi chierici et a me pure et andarmene a casa, provedermi per altra via il pane, perché dicono alcuni che ‘meglio essere mercenario et habbondare il pane, che usar charità et morire di fame’. V.S. si degna rescrivermi due paroline consiliandomi che s’ha da fare acciò non mi mostri imprudente”217.
Non è possibile non soffermarsi per qualche riflessione su affermazioni quali ’...non posso più soffrire i disgusti’, o su quella che rimanda a tutto un mondo e a una concezione della politica e, in parte, della religione, tipicamente barocchi: ‘...son andato dissimulando’218; e che dire poi della citazione di quello che ci appare come un amaro proverbio (“meglio essere mercenario...”) che, riferito in questa circostanza dal Quagliotti, non risente solo del pessimismo e della praticità di un sentire popolare senza tempo ma pare proprio lo specchio di una situazione divenuta, in pochi mesi, insopportabile.
Un’ultima riflessione poi, su quello che nella richiesta pare una sorta di ultimatum: riuscire cioè ad avere quanto prima almeno ‘due paroline’ di rassicurazione e di conforto morale, se non pratico, dai proprii superiori. Tutti questi paiono – e propriamente sono – i sintomi di un’insofferenza maturata con l’accumulo di continue, forti tensioni (specie con il Florio219) che Francesco, sia pure con tutta la
217 AONo, cart. 3, 21 luglio 1610 (ma sul ‘verso’ lo scritto di Francesco è del 30 luglio). La comprensibilmente rapida, diplomatica e conciliante risposta del Dolci al Quagliotti – dove in sostanza gli si chiedeva di resistere, di pazientare ancora qualche giorno e di soprassedere almeno fino all’arrivo suo e del vescovo – è del 31 luglio, quindi del giorno successivo: “...ho sentito che ivi habia disgusti [...] Habia pacientia ancora fin tanto che venga Mons. Rev.mo in Riviera, che sarà fra pochi giorni, et alhora si provederà a tutto”.
218 In questo caso potrebbe essere utile leggere talune belle pagine di R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari 2003, nonché i pensieri - su tale pratica quotidiana - di un erudito del secolo di Quagliotti quale fu il napoletano Torquato Accetto, che nel 1641 diede alle stampe un suo trattatello che lo rese per sempre celebre, Della dissimulazione onesta, (se ne veda ora un’ottima edizione a c. di S. Silvano Nigro, Torino 1997). Mi limito qui a questi due soli riferimenti esemplificativi ma i trattati e le disquisizioni sull’argomento sono, per l’epoca (e passando dalle acute riflessioni del padre gesuita Baltasar Gracián y Morales a quelle del cardinale Giulio Mazzarino), assai più numerose e meritevoli di approfondimento.
219 AONo, cart. 2, copia successiva (originale non reperito, sebbene ne sia indicata la presenza da mano ignota sul foglio, neppure in ASDNo): significativa, in merito, tale lettera del Quagliotti, probabilmente al vicario generale e riferibile al tardo 1611, in cui il rettore di S. Cristina si doleva sentitamente dell’operato del Florio – allora curato di S. Cristina - riguardo ai giovani chierici del Collegio: “...tutto quest’anno amministrò a’ chierici i ss. Sacramenti. Cessò da questa cura circa la Pentecoste né so per qual causa, e solo si contentava di confessarne tre o quattro” mentre gli