Page 144 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
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l’espiazione “in galera”, cioè al remo sulle più comuni e diffuse unità navali della cristianità, le galere appunto, o con la pena capitale. Veniva di solito punito con sanzioni che oggi definiremmo amministrative, risolvibili con il pagamento delle moderne multe o ammende.
A fronte però di un forte, continuo bisogno di manovalanza da remo, le pene erano spesso considerate ‘gravi’ e perciò punibili con il massimo edittale, cioè, per l’appunto, la galera. La temuta condanna al remo equivaleva pressoché ad una condanna a morte: qualche anno incatenati ai banchi di voga, privi di libertà, di assistenza sanitaria, nella sporcizia, sottoposti alle angherie degli aguzzini, alle inaudite fatiche fisiche, alle asprezze meteorologiche e al pericolo quotidiano di essere catturati o uccisi dal nemico portava spesso alla follia, a gravemente deperire, a morire. Questo implicava il frequente invio di non pochi ‘uomini da remo’ presso i più vicini imbarchi di flotte alleate. Invii che, per i prigionieri della Lombardia spagnola – da cui Novara e il Novarese dipendevano – si traducevano in uno sbrigativo, notturno trasferimento nei porti della Repubblica di Genova o, al più, presso quelli del granduca di Toscana ed ancor più in quelli dei vicereami spagnoli di Napoli e di Sicilia. Non pochi, tra i condannati a quella pena, tentavano la fuga.
Quagliotti, ancora una volta traendoli non solo dalla manualistica, ma dalla realtà quotidiana che certo non mancava di giungere persino sui colli borgomaneresi, spiegava dunque ai giovani chierici studenti di casistica che, a questo punto, era logico prevedere che tali prigionieri per simili reati potessero evadere. Da qui, dunque, una approfondita dissertazione sulle possibilità che un prigioniero potesse aggravare la sua già precaria condizione con una evasione, studiando altresì il modus operandi più collaudato in simili evenienze.
Da qui la domanda: “An si quis fugiendo evadere possit” prevedendo pure se, complicando non poco il già intricato panorama penale del soggetto studiato, si trattasse di un fuggitivo – sia pure in più generico contesto e nella fattispecie prevista – da non meglio indicati “invasores”. Inutile sottolineare che la casistica – come già polemicamente non avrebbe mancato di sottolineare, qualche decennio dopo, Pascal – avrebbe intuilmente cercato di ravvisare, individuare, puntualizzare le particolari minuzie di fin troppo singoli casi di coscienza, casi talvolta grossolanamente definibili come criminali e in ogni modo di diversa specie e natura, e dipendenti dai più disparati contesti, casi che non avrebbero comunque potuto soddisfare la pur critica acribìa dei più zelanti, rigorosi confessori.
Non mancava poi, nella minuziosa casistica prevista dall’acuto rettore, anche quella secondo cui, in simili, drammatiche circostanze, si giungesse all’adulterio: erano compresi contesti via via moralmente e penalmente più pesanti, in un crescendo di turpitudine e di devianza: quello cioè non solo, per così dire, dell’uomo con la moglie colpevole (e non viceversa), ma del fratello con la sorella, e addirittura – con particolarità ben più scabrose – del figlio con la madre o del padre con la figlia441. Un
441 Che nei piccoli villaggi tra pianura e montagna si potesse giungere ad abiezioni anche gravi è cosa nota. Persino un ex chierico del Collegio, don Rampanelli, chiese lumi riguardo ad un delicato caso di reiterato, articolato adulterio verificatosi nella sua cura, quella di Loreglia: “...non so se sia tenuto a denuntiar un padre di fameglia mio parrochiano d’origine et patrino, qual, già molt’anni pratticando nelle parti sospetti, ha preso una donna vivendo qui