Page 111 - AIUTARE LE ANIME ET IL GOVERNO EPISCOPALE
P. 111
riparlerà a suo tempo – proprio in una lettera del Bellarmino scritta tre anni e mezzo dopo il loro incontro “Al Molto Rev. sig.r il sig.r Francesco Quagliotti” del 25 marzo del 1617351.
Una lettera cordiale, profonda, sorprendente che non solo inquadra e illumina perfettamente lo stato d’animo del prete e rettore galliatese in cui l’austero, coltissimo cardinale gesuita senza alcuna esitazione e fin dalle prime righe ravvisava “...lo spirito di vero sacerdote et predicatore della parola di Dio, che è spirito di humiltà et charità”, ma ne traccia un profilo che ben si attaglia al perfetto prototipo di “vero sacerdote et predicatore” di quel primo Seicento352. Una missiva importante quindi, che scioglie con estrema semplicità e nettezza sia i dubbi dell’angustiato teologo, sia – a distanza di secoli – i nostri. L’effettivo scopo della corrispondenza tra i due, il “disegno” umilmente dissimulato da Francesco e sospettato, quasi paventato dal Bascapè, il “fine” subito individuato dal cardinale, altro non era se non avere il suo parere “...intorno al farsi religioso o restare nello stato di Prete seculare; o vero se desidera sapere come debbia portarsi nel stato di prete seculare”.
Le parole di Bellarmino – non solo e forse non tanto quelle scritte nell’ancora lontana primavera del 1617 ma evidentemente anche quelle, a noi ignote, ascoltate da un Francesco trepidante nell’autunno del 1613 – dovettero segnare profondamente e infine convincere il titubante rettore di S. Cristina. Il cardinale – che contrariamente alle consuetudini curiali e non solo per pura cortesia ma per un reale trasporto verso il giovane “...gli scrivo di propria mano” – pur riconoscendo che “...non è dubio che lo stato di prete regulare è più perfetto, che di prete seculare” continuava, precisando a un Quagliotti forse meravigliato che tuttavia tale stato: “...non sempre è più utile”. Che fare allora, e come regolarsi?
Anzitutto, prosegue “...bisogna assecurarsi della vocatione del Signore perché quello stato è assolutamente meglio per ciascheduno al quale da Dio è chiamato, perché allora è sicuro che Iddio che l’ha chiamato lo favorirà della gratia et lo condurrà al porto di salute se non sia ingrato alla vocatione”. Ma come verificare dunque la bontà e la sicurezza della propria vocazione? Anche in questo caso nessuna incertezza da parte dell’alto prelato, che indicava con pacatezza un’unica possibilità, una sola, indubbia soluzione al Quagliotti: “...per assicurarsi della vocatione si ànno li Padri della Compagnia” nonché i “...consigli nelli s.ti essercitij della seconda settimana”. Quanto invece al secondo quesito posto dal giovane sacerdote “...per far bene l’offitio suo in qualsivoglia stato” il settantenne cardinale non trovava “...miglior modo che di domandare a Dio assiduamente lo Spirito suo santo” perché certo “...siamo securi che lo Spirito santo è maestro di ogni scientia et di ogni virtù”.
351 AONo, cart. 6, dove sono conservate le lettere del Bellarmino al Quagliotti e a Giovanni Battista Rasario, successore del nostro quale rettore del Collegio di S. Cristina.
352 L’idea, il concetto di “vero” e di “perfetto” sacerdote e predicatore della parola di Dio, ligio e zelante ai dettami della riforma, con un’altissima opinione e concezione della dignità sacerdotale si era formata o, per meglio dire, si era rinnovata e rimodellata nel Cinquecento ed era già stata ampiamente oggetto di riflessioni nella trattatistica cattolica: segnalo qui, in particolare, le opere del fiammingo Judoci Clichthovei theologi Parisiensis (Josse Clicthove), De vita et moribus sacerdotum opusculum singularem eorum dignitatem ostendens et quibus ornatis virtutibus esse debeant, ex officina H. Stefani, Parisii 1519 e dello spagnolo Pedro de Soto, Tractatus de institutione clericorum qui sub episcopi animarum curam gerunt, Dilingae, per Sabaldum Mayer 1558, entrambe con numerose ristampe successive.