La Porta

pcaimiI monumenti al beato Padre Bernardino Caimi e Gaudenzio Ferrari

Appena oltrepassata la monumentale Porta Maggiore, prima opera varallese di Galeazzo Alessi, si entra nell’area sacra della Nuova Gerusalemme che subito affascina per l’atmosfera profondamente mistica e suggestiva.
Non si tratta di un qualunque parco pubblico, sia pur notevole per antichità e bellezza, né tanto meno di un luogo per svago e scampagnate, ma di un recinto sacro, di un vero e proprio spazio sacro in cui si rivivono i misteri della vita e della passione di Cristo.
L’insieme è veramente superbo, come quello di un incantato giardino del Cinquecento, per la presenza dei grandi alberi secolari e per la solenne architettura della prima cappella che compare di fronte, quasi fiancheggiata e più intimamente legata alla Porta Maggiore dalle due imponenti statue del Padre Bernardino Caimi a destra e di Gaudenzio Ferrari a sinistra. come a formare un’ideale, raccolta piazzetta.

Così le due statue, collocate su grandi piedestalli di granito e maggiori del vero, poste quasi a premessa di tutto il «gran teatro montano, assumono un alto valore emblematico ed esaltante l’una la fede ed il coraggio del fondatore dell’eccezionale impresa del Sacro Monte, l’altra la genialità e la grandiosità di concezione dell’artista che seppe creare con irreperibile efficacia i maggiori capolavori di tutto il complesso.

L’erezione dei due monumenti, ora restaurati, risale al 1866-67 ed è dovuta alla munificenza del conte Benedetto Carelli di Rocca Castello, uno dei più insigni benefattori del Sacro Monte, per altro mai ricordato tra essi.
Nato da una delle più distinte famiglie varallesi, il Carelli (1772-1852), notaio e causidico stimatissimo, fu uno degli ultimi Reggenti della Valsesia nel 1815 e riformatore degli Studi nel 1837. Per i suoi meriti Carlo Felice lo insignì del titolo di conte nel 1826 e nel 1837 Carlo Alberto gli concesse il predicato di Rocca Castello; il Carelli fu inoltre commendatore dei SS. Maurizio e Lazzaro e consigliere di S. Maestà.

Di animo profondamente caritatevole nel 1851 donò al comune di Confienza parte dei possedimenti che là aveva, per istituire un’Opera Pia. Nel suo testamento legò somme per allora assai cospicue per gli alunni poveri delle scuole di disegno e di scultura di Varallo, per gli emigranti delle valli Sermenza e Mastallone ed inoltre elargì un notevole capitale all’Ospedale di Varallo ed un altro munifico lascito al Sacro Monte.

Questo venne impiegato in parte per provvedere a restauri e rifacimenti di affreschi in alcune cappelle, in parte per erigere i due monumenti in rame del Caimi e del Ferrari, che poterono essere innalzati solo quattordici anni dopo la morte del donatore per opera dello scultore Pietro Zucchi come risulta dalla firma.

Varallo già vantava dal 1862 il monumento a Vittorio Emanuele II, scolpito da Giuseppe Antonini; sarebbe poi sorto attraverso tante difficoltà nel 1874 quello pregevolissimo di Gaudenzio Ferrari presso la Madonna delle Grazie per opera del Della Vedova e, sempre ancora nell’Ottocento, quello del generale Antonini sul ponte del Mastallone.

Ma forse l’opinione pubblica locale avrebbe preferito che l’elargizione dei Carelli fosse stata devoluta per erigere la facciata del tempio maggiore che allora ancora attendeva di essere costruita secondo il progetto neoclassico del marchese Cagnola. Forse si pensava che l’erezione del monumento al Ferrari sul Sacro Monte rendeva ancor più difficile l’iniziativa di innalzare quello sulla piazza vicino alle Grazie per il quale non si riusciva a trovare i fondi. Forse ancora dispiaceva che a modellare le due statue in rame fosse stato chiamato uno scultore non valsesiano, come pure stava avvenendo proprio nel ’66 per un altro monumento al Ferrari, quello di Valduggia, opera dell’Argenti, di cui quello del Sacro Monte appare quasi una replica con poche varianti, mentre la Valsesia poteva offrire scultori allora di grande prestigio come l’Albertoni, o di un certo valore, ossia Giuseppe Antonini, e Costantino Barone, mentre iniziava la sua carriera il Della Vedova. Fatto sta che i due severi monumenti non piacquero, anzi, vennero molto criticati. Basti leggere la violenta stroncatura del Tonetti nella sua guida della Valsesia del 1891 in cui li definisce «due brutte statue di rame … le quali li deturpano, anziché essere di ornamento …».
Anni dopo il canonico Romerio ancora scriverà, con tono più pacato, sul Bollettino del Sacro Monte del 1909: «Su queste statue molto si scrisse censurando a ragione la poco felice riuscita del lavoro. A dire il vero … si sarebbe dovuto trovare di meglio per un lavoro che nella mente del generoso benefattore doveva eternare le glorie del nostro Santuario, la Religione e l’Arte».
Più tardi il Galloni nell’ultima parte, piuttosto affrettata, della sua classica opera, ignora totalmente la beneficenza del conte Carelli e le due statue.

La tradizionale valutazione negativa tramandata attraverso le generazioni, tarda a dissiparsi ed è ancora supinamente accolta dall’opinione pubblica varallese, talora anche con espressioni taglienti. Eppure i due monumenti tanto incriminati non sono certo meno decorosi di quelli di Vittorio Emanuele e del generale Antonini, né cedono di fronte a tanti altri eretti nel secolo scorso in centinaia di piazze delle nostre città.

La nobile figura del Caimi eseguita nel ’67 dall’impianto grandioso, modellata a larghe masse, si impone per il gesto energico e solenne a dominare lo spazio, eloquente interpretazione dell’animo e del carattere del fondatore di tanta impresa.

Quella di Gaudenzio (del ’66) volutamente si contrappone alla precedente per l’atteggiamento più raccolto ed austero, quasi a voler cogliere il grande maestro in una pausa pensosa della sua intensa opera creativa. Ambedue si collocano a buon diritto in posizione eminente nel capitolo dell’iconografia del Caimi e del Ferrari.

Del primo, come noto, sono purtroppo scomparse quasi tutte le raffigurazioni cinquecentesche: distrutta all’inizio del Settecento quella che Gaudenzio aveva dipinto nella cappella di S. Francesco presso il Santo Sepolcro insieme ai membri della famiglia Scarognini, distrutta verso il 1930 quella affrescata nell’ospizio degli Oblati (di cui fortunatamente rimane almeno la riproduzione fotografica), che rappresentava il Caimi nell’atto di indicare il Sacro Monte. Al secolo XVII risale, prima fra tutte per importanza, e per particolare senso di profonda ed umile umanità la statua in terracotta dipinta modellata da Giovanni D’Enrico nel 1638 e collocata nella nicchia accanto al Santo Sepolcro. Seguono le tele del Museo del Sacro Monte (un tempo nella sacrestia dello scurolo in basilica) e di S. Maria delle Grazie (sull’arco della prima cappella), tutte raffiguranti il fondatore con il modellino del Sacro Monte in mano. Il Caimi è pure effigiato nella grande pala settecentesca dell’altare di S. Pietro d’Alcantara in basilica. Risulta poi che una sua immagine si trovava nel convento del Giardino a Milano; un’altra ancora si vede nel convento dei Francescani a Saluzzo; così pure un affresco che lo raffigura con la Madonna e S. Bernardo è ricordato nel muro di una casa di Parone. A queste opere di pittura e scultura bisogna aggiungere le incisioni ad iniziare da quella del 1587 pubblicata nell’opera del P. Gonzaga, in cui il Caimi compare insieme a vari altri beati del suo ordine, seguita da quella dell’Arbor Beatorum della Provincia di Milano dell’inizio del Seicento e da quella del Bianchi del 1700 circa a cui bisogna aggiungere la serie abbondantissima di incisioni per lo più popolaresche, derivanti dalla statua del D’Enrico, e pubblicata sulle numerosissime guide del Sacro Monte.

L’iconografia del Caimi annovera poi anche varie medaglie ad iniziare dal secolo XVII, per lo più ovali, recanti su una faccia il P. Bernardino e sull’altra l’Assunta, altre raffiguranti il Caimi su ambo le facce, lievemente varianti per misure e didascalia, sia in argento che in rame. Di queste ultime una fu rinvenuta addirittura nel santuario della Visitazione ad Ain Karim in Palestina. A queste ne seguono altre del secolo scorso e del nostro, di fattura però più industriale; ma tutte sempre riproducono il Caimi nell’iconografia consueta con il modellino del Sacro Monte in mano.
La nostra grande statua di rame che presenta invece il frate con un braccio alzato e l’altro che protende un ampio foglio aperto, si stacca dalla tradizione e si distingue per la sua originalità. In sostanza si tratta di una raffigurazione del tutto nuova e della più impegnativa e monumentale che l’Ottocento ci abbia dato del Caimi.

Diverso è il discorso per quanto riguarda la statua del Ferrari. Notissimi sono i vari, ma non sempre sicuri, suoi autoritratti: quello sotto le spoglie di un pellegrino ai piedi della croce nella grande parete della Madonna delle Grazie; l’altro, pure in abito da pellegrino, affrescato presso la porticina di sinistra nella cappella della Crocifissione al Sacro Monte; un terzo più ipotetico, pure sulla sinistra, nella cappella dei Magi.

A questi si deve aggiungere un autoritratto su tela già nella collezione Giustiniani di Roma, passato nel 1812 nelle raccolte reali di Berlino ed oggi purtroppo non più rintracciabile, ma di cui si è recentemente scoperta una piccola riproduzione in incisione. Notissimo è il ritratto di profilo, divenuto poi classico, dipinto dal Lanino nella cappella di S. Caterina in S. Nazzaro a Milano nel 1546. Ma bisogna fare un balzo fino al secolo scorso per trovare una vera fioritura iconografica gaudenziana con la piccola incisione dell’Autoritratto già Giustiniani (1812), quella di un presunto ritratto pubblicata dal De Gregori nella sua Istoria della vercellese letteratura ed arti (1819-21), ripresa poco dopo dal Paroletti nelle sue Vite e ritratti di sessanta piemontesi illustri (1824), quella del Bordiga per la prima monografia su Gaudenzio (1821) che riproduce il ritratto milanese del Lanino, ripresa a sua volta ripetutamente come modello fino ai nostri giorni. Ma è soprattutto nella scultura che l’iconografia gaudenziana ottocentesca ebbe la maggior diffusione con: la medaglia coniata a Milano nel 1825, il busto sulla facciata della casa dell’artista a Varallo (1839), il medaglione del Girola nel portico nuovo del Mercato a Novara (1840-52), il busto dell’Albertoni (1845) per l’Istituto Tecnico di Varallo e quello per il Salone della Società d’Incoraggiamento, il busto nel palazzo del Campidoglio a Roma, opera del Bisetti di Maggiora (1856), il già ricordato monumento di Giuseppe Argenti per la piazza di Valduggia (1866), il monumento del Della Vedova a Varallo (1874), la sua replica in una nicchia della bella casa del Della Vedova in corso Matteotti a Torino. A questi si aggiunga nel nostro secolo l’erma eretta nel 1972 nei giardini di S. Andrea a Vercelli.

In un contesto così sorprendentemente ricco il nostro monumento sul Sacro Monte campeggia insieme agli altri due di Valduggia e di Varallo. E sebbene non possa competere con quest’ultimo per l’alto livello di ispirazione ed il sottile fascino poetico che lo anima, ma rimanga sul piano di una schietta e robusta prosa, si qualifica però per dignità severa e corretta e per la sua imponenza come un omaggio veramente munifico per onorare la personalità artistica di Gaudenzio.

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